Librando: la pagina di PAGINASCRITTA EDIZIONI che ospita alcune delle nostre recensioni di "voli librati" dentro le pagine
LA VITA DI UN ALTRO di Fabio Sirugo
La vita di un altro, seconda opera dello scrittore Fabio Sirugo, è una narrazione all’interno della quale, sin da subito, è dichiarato un filo conduttore che sottende le vicissitudini raccontate. È, infatti, una iniziale avvertenza dell’autore ad informarci circa i parametri antropologico-sociali che saranno utilizzati come criterio di scelta di quasi tutti personaggi, in particolare di Peppino, il protagonista. L’uomo, ora settantenne e travagliato dalla sofferenza del suo primo ed unico amore rinunciato, decide di raccontare tutto il suo turbamento e la tenerezza per Rosetta ai suoi due figli, Vito e Agata, e al nipote Giuseppe. E lo fa con cura, come una vera e propria confessione, quasi con parsimonia, con dovizia di dettagli e odori, sapori di ciò che fu, ora con poesia, ora con sentimento malinconico e nostalgico. I tempi, infatti, si intersecano: lo snodare in prima persona, e in modo appassionato, sembra annullare il trascorso per un presente che avvolge ancora, vivo, pulsante di una memoria probabilmente ripetuta più volte nella sua mente. Quasi a non voler lasciare andare i gesti, le promesse. I baci. I silenzi. I sorrisi e le atmosfere di un granaio in cui i due si incontravano per amoreggiare poco prima della seconda guerra mondiale. Continua ad emozionarsi Peppino, senza alcuna omissione di ciò che era stato per lui e per lei quel sentimento. E poi di colpo ritorna alla realtà, laddove la sua vita è con sua moglie Concetta, personaggio “istituzionale”, a tratti freddo e categorico nel proprio rapportarsi a lui: un po’ come sempre da redarguire, da appuntare nelle varie espressioni quotidiane. Troppo “semplice” lui, per lei che è come “perfetta”, impeccabile: la brava moglie-donna di casa, eccellente nell’arte culinaria, con tratteggi matriarcali che rimandano sin dalle prime battute ad un rapporto asimmetrico, incastrato probabilmente all’interno di ruoli prestabiliti matrimoniali, come fossero stati contrattualizzati, privi di una reale affettività. Sembra proprio che il disequilibrio relazionale sia il leitmotiv soggiacente a tutti i rapporti tra i personaggi, l’uno dipendente dall’altra in maniera quasi matematica, funzionale. Sarà così, quindi, anche per Agata e suo marito Filippo, così come per Vito e sua moglie Giorgia. Cetty, la bambina della narrazione, interviene qua e là con la sua ingenuità a smontare di tanto in tanto l’atmosfera del tacito, dei segreti di cui stare attenti a non dirsi o, tutt’al più, da argomentatore con molta discrezione. Il riserbo è alternato alla forma delle cose, contornato da puntuali descrizioni somatiche da parte dell’autore dei “non detti apertamente”, da segni ostensivi che di per sé, invece, parlano schiettamente. Quasi come poter “guardare” l’intera narrazione, vederla muoversi sinuosa dentro prestiti metalinguistici per poi approdare ad espressioni vernacolari che sottolineano il tutto con un realismo verghiano. Nell’odore del gelsomino o di una pietanza appena pronta, intorno a quella tavola che per metafora potrebbe essere il Teatro all’italiana all’interno del quale saranno protagonisti colpi di scena fino alle ultime righe, come è nell’imprevedibilità delle cose.
Gabriella Mauciere
(dir. edit. e cult. di Paginascritta Edizioni)
BOLIVAR CALLING di Carmelo Toro
Dai diversi sapori, la narrazione Bolivar Calling di Carmelo Toro (Carthago edizioni – 2014). A dirci dei segreti e dei sotterranei dell’animo umano è palesemente lo stesso autore, ora con un tono quasi da confidenza, ora con fermezza deliberata. Affermazioni metalinguistiche che attraversano “il colpaccio” criminoso, che sembra essere il soggetto principale, il rapporto con un datore di lavoro avido e canaglia, le relazioni umane all’interno di un bar di Piazza Bolivar a Noto, il Giardino di Pietra del sud-est siciliano presso cui si snoda fluida la vicenda, l’intreccio amoroso con una “lei” e il suo parallelo velato, per lo più silenzioso, con “un’altra” da parte di Omar Vacchetti, il protagonista. Personaggi, tutti, che prendono vita dall’agire di lui, in un proprio momento esistenziale amaro, forse, comunque fiero di un agognato cambiamento che caparbiamente sogna. Traccia. Segue, insegue. Concretizza. Figure abilmente “spiegate” con minuzia di particolari anche sociologici e linguistici che ben si prestano a mettere in risalto un’aderenza realistica. E non solo a qualcosa che potrebbe essere verosimile, ma anche a quegli aspetti più intimi della condizione umana quando in preda ad un senso di onnipotenza: ecco, allora, la sfida alla “forma” attraverso la provocazione intelligente, i giochi sintattici che rimandano subitanei a quei valori a volte subordinati, i prestiti linguistici che ironizzano dentro le amarezze del momento, le allitterazioni espressive che riconducono ad una sorta di centralità da cui tutto è pronto a ripartire. O seguitare dopo un flashback favorevole a “quel” significato tra “quelle” righe. “Ci” racconta, Carmelo Toro, “ci” dice e “ci” spiega un qualcosa che è trascorso e che è lì vivo al contempo. Un “qualcosa” che è “milonga”, luogo in cui lasciarsi andare alla compresenza degli opposti: Omar, giovane avvocato, “alle prese” con quella funzione di “Bolivar” di se stesso, come su una scacchiera, a passi precisi e taciturni, che fa i conti con l’agire illegittimo, dissacratorio di idealismi delusi. Alle prese con una verde milonga di Paolo Conte, che accoglie attraverso sue citazioni l’intera vicenda, ci evidenzia, infatti, l’avvincente districarsi che risulta pertanto essere trasversale: così per i contenuti prorompenti e “buoni”, per il linguaggio utilizzato, ora alto, oratorio o composto da sineddochi, ora volutamente popolare; per la partecipazione della musica che distingue l’intensità di alcune scene, per quella capacità di descrizione didascalica di alcuni sfondi d’azione, così puntuale da poter essere accostata a delle vere e proprie deissi drammaturgiche.
Gabriella Mauciere
(dir. edit. e cult. di Paginascritta Edizioni)
POETILE (di Gilberto Finzi, Nino Aragno Editore, Milano)
Nuove lune e Ippogrifo, Haiku, Il mio di me, Satura, per vizio estremo: cinque espressioni. Cinque, come il numero dei sensi. Un viaggio a ritroso nel tempo, in una dimensione eternamente presente, come l’istante della poesia. Della memoria assaporata, disillusa, annusata nel «Nulla» percepibile nel confine delle cose. Tra le fessure immaginarie, portatrici di intenti, desideri altrimenti solo taciti, avvertibili unicamente all’udito di un animo fresco. Fresco e pesante al contempo. Figlio di paura e tremore, ma voglioso di luna melodiosa, di bisticcio di parole, come fanciullesca provocazione, per raggiungere, o solo fermare per un attimo, ciò che ora è possibile, qualcosa che, altrimenti, sarebbe solo vuota aspirazione.
Così, la mano di Gilberto Finzi segna dettagli, trascrive emozioni, attende l’attesa. In una luce giallognola, sembra. Quasi ovattata, rarefatta in una nebbia d’autunno, pare. E d’improvviso l’inchiostro è senza precisa meta. Veleggia, «Imbarca l’onda» e «nel cuore la speranza naviga a vista»: gli occhi, ora, sono deliziati dalla «luna nuova» nei pensieri alati, sciolti, che si liberano anche «dove graffia l’ortica che non vedi». Anche se, subitanei, nell’«ora stretta e buia», sembra che filtrino «fumi e ontose / negre visioni, incubi / di alto spessore, nebbie» che «non toccano acqua o terra, / sollevati / sullo sfondo sembrano / sogni». E che siano tali! All’interno di descrizioni minuziose, di paesaggi pitturati sulla tela dello scrittore-pittore. Di chi, per quell’attimo, prende in prestito grumi di vernice e in ogni bolla scopre un nuvola, forse già carica di temporale, sicuramente densa di linguaggio ermetico, custode di infinite interpretazioni, detentore di silenzio. Di quella “non comunicazione” della parola che, invece, è tracciata come potenziale evocativo, il cui fine potrebbe essere quello di conseguire una propria purezza originaria. Una prosa in cui c’è assenza di nessi logici e desiderio di cogliere l’assolutezza metafisica della condizione umana.
La sintassi paratattica e i versi sciolti, sospesi tra le dita di Gilberto Finzi, si tratteggiano, poi, nelle 17 sillabe tradizionali di un Haiku, anch’esso libero, in cui l’omissione del kigo, il termine indicatore di una delle quattro stagioni, determina l’impossibilità di cogliere un preciso punto del tempo: si tratta, dunque, di scene rapide e intense versificate che, non appena annusate, sono già spazio vuoto, potenzialmente accogliente di essenze soggettive. E, se il “quando” è presente, allora sarà il «domani» o la «Notte notturna»: sarà, insomma, uno “spostamento in avanti”, un protender-si, come sinonimo d’attesa o solo dell’atto del rimandare, oppure la collocazione temporale del buio, mistero in cui si cerca la vita. Gli odori sono forti: così è quello dell’«onda», così è quello acre del «Nulla» che «avanza» e che «disfà», o quello pungente della «bava» che «resta / all’anima che striscia».
E, forse non a caso, è proprio il tatto il senso che sembra svelarsi in Il mio di me, terza parte di Poetile, posta esattamente al centro delle cinque che la strutturano. Il tatto come mano scrivente, come ricerca di con-tatto con il proprio profondo, con “il suo di sé”. Un percorso all’interno, un impellente bisogno di estrinsecarlo, di soffermarsi a toccare la corteccia solitaria del «platano», ciò che non c’è stato, «anni anni immaginarie dolcezze / non la memoria non / la felice distesa…» della «pianura». “Il suo di sé” è urgente, tanto da essere necessario l’utilizzo del prestito dialettale o dell’anafora all’interno della negazione che rimarcherebbe la disillusione: ma «nel nero del nero / la betulla … / lo sguardo immobile apre».
Ora è tempo di Poetile, di udito, di “morfologia peggiorativa”, che si presta a sinonimo di “ronzii”: «fitti di mosche / e spleen da cortile / cani pazzi» sembrano danzare freneticamente in una fonetica giocosa, in altri versi fatta anche di paronomasie. Ora, è tempo di « … fantocci / di un viver riflesso / danzanti senza fili»: sembra che gli abiti di broccato di seta degli attori del Nō vestano solo Marionette.
E la mano si fa confessione, mentre il retrogusto del silenzio è in una «ruina» che «avanza, stretta nelle gole alte / dei ghiacci». Perché per vizio estremo si può «frodare le campane / mentre si mangia una greppia / di folto fieno, / e alla fine della vita / sputare sull’ambrosia di tutti / gli dei».
Poetile, nient’altro che “poetile” in un Poetile che, ermeticamente, può essere già altro.
Gabriella Mauciere
(dir. edit. e cult. di Paginascritta Edizioni)
"Vertigine" di Paola Colombo
Rumori sordi, strade da percorrere, forse già andate.
Vie straniere, sentieri conosciuti, date, insonnie, istanti d’ebbrezza chiamati “Felicità”.
Elementi, questi, che concorrono a disegnare i tratti di un quadro: il dipinto di una sottile ingenua dispersione.
E i colori si mescolano, i pennelli s’intingono in oli mutevoli, non appena sono distesi sulla tela.
Un tuffo continuo, accuratamente verbalizzato nell’uso ripetuto della preposizione «nel» (pag. 12), in purezze astratte come il «chiarore del mattino» (ivi), il «respiro di gelo» (ivi) o, ancora, il «fiume» (ivi): luoghi presenti, tangibili in vertiginose fantasie.
Probabilmente è proprio in questo girovagare tumultuoso che si palesa il desiderio come il cercare furtivo, ammaliante, del richiedente d’amore: l’inganno è teso da chi, forse, tocca il mondo nella segretezza della discrezione.
In qualche frammento di tale accorgimento potrebbe, dunque, annidarsi un vuoto vissuto tramite parole che sono l’ombra del capogiro, il sussurrare di una nota come parola dapprima taciuta, poi suonata con ebbra ambizione di contatto.
La creazione di piccoli dettagli, sotto forma di puntuali aggettivi, di simboli che sintetizzano nella loro specificità l’appartenenza allo spazio circostante dimostra che Paola Colombo approda all’espressione poetica come fosse l’istante di una rivelazione, di qualche congiunzione tra le antitesi della realtà.
Al contempo, l’autonomia di una certa parola, magari lasciata da sola in una riga, coincide con l’altra faccia della medaglia, e cioè la crepa.
Tutto ciò sembrerebbe incontrare l’inventiva libertà del viaggiatore, del suo stupore a timbri fino ad allora sconosciuti, a visi che riecheggiano il già visto, il già vissuto, nel vortice di ricordi sempre nuovi.
Per imparare che, in realtà, «tutto è uguale tutto identico a prima solo i miei occhi ancor più esperti e scuri si chiuderanno sereni delle incertezze conquistate» (pag. 21).
Proteste si sciolgono in ossimori come quando «sordo» ( pag. 23) è «il rumore d’ogni cosa vicina» (ivi), o come «immobile» (pag. 24) è il «palpitante petto» (ivi), mentre in una voce verbale si può concentrare tutta la tensione drammatica di ciò che alcune metafore vogliono raccontare, tramite il nesso comparativo “come”.
E allora ci si imbatte in situazioni immaginarie come «la pazzia del vento» (ivi) e «la parola rincorsa da penna» (ivi), oppure in scene realistiche come «l’indaco chiarore di notturno orizzonte» (ivi) in cui, ancora una volta, la presenza di parole opposte per significato rafforza il momento lirico.
Anche le forme onomatopeiche intervengono a creare atmosfere cariche di passionalità, come nelle esplicite «note gracchianti» (pag. 43) in cui prende corpo la «moviola» (ivi) dei suoi «tormenti» (ivi), o nell’implicito «sibilar del vento» (pag. 36) capace, già per propria eloquenza e per ambientazione, di farsi sentire realmente così da poter diventare, insieme al «muschio» (ivi) e «alla resina» (ivi), cuscino, «camomilla per il mio stanco sonno» (ivi).
Allo stesso modo, il simbolo semplice e trasparente racchiuso nel termine «camomilla» (ivi), lontano dal ridursi in un freddo topos, conserva tutta la sua dolcezza.
Il registro stilistico, dunque, risulta altamente intenso: pronto a modificarsi in sincopata espressione, in un voluto verbo “solitario”, in un aggettivo che sembra dai contorni deserti intorno, mantiene energica la sua incisività.
Del resto, il modo verbale più ricorrente è l’indicativo, il tempo è il presente, l’azione è spesso il movimento, come a voler testimoniare un diretto destinatario, un rapporto vivo, lineare anche quando si potrebbe trattare di intrinseca proiezione.
Il passato, su questa linea interpretativa, potrebbe essere il termine di confronto con una realtà che si ribalta subitanea alla corrente realtà.
L’eventuale non appartenenza, tramite ipotetici incisi, il distacco, l’aspirazione a quel “qualcosa” che riempia le distanze forse anche ricercate, è palpabile in meravigliosi voli sul mondo, frenetici, frullati in «mille specchi» (pag. 38) che La «attorniano» (ivi) mentre un «io fantasma» (ivi) vede «solo lacrime che scorrono su un’ombra che sfugge le altre ombre» (ivi).
Le forme, allora, sono per lo più paratattiche, stringate, difficilmente prolisse, se non per dar voce a descrizioni il cui scopo potrebbe essere lo spiegamento dell’arrestarsi del tempo, per conferire maggiore importanza al momento in questione, per trasmetterlo con più sostanzialità.
A volte, la fonetica giunge ad essere rima: accade «In un grigio pantano inumano tace il Quartiere Indonesiano» (pag. 42), come se l’autrice volesse giocare, come a voler donare una fresca leggerezza che di per sé è già canto.
Il ritmo, qui, risulta armonico, flessuoso.
Altrove, serrato.
Nel suo insieme, è sempre scattante, quasi intriso di dolce irrequietezza.
Le parole di Paola Colombo, semplici, vere, emozionanti, sono come il gorgoglio dell’acqua, come perle snocciolate: gli anelli increspati sul lago dal sassolino delicatamente lanciato.
È forse questa l’immagine che più somiglia al senso di quell’equilibrio da Lei avvertito, annusato nei vorticosi suoni, che diventano silenzio: «L’equilibrio sono solo due opposti con forze che si equivalgono» (pag. 13).
E quando ciò sembra non accadere e scivolare nell’incertezza, ecco l’affanno dolce di chi si specchia nell’acqua, cercando un riflesso del perché.
Allora intervengono onde straniere, altre opposizioni, per nulla veramente contrastanti in quanto sincere espressioni l’uno dell’altra.
Ecco, dunque, il loro attraversamento, di tanto in tanto repentino, altre volte lento e quieto come il silenzio di chi semplicemente ascolta e non chiede.
La “bambola fragile”, ora, è già ripartita e, fanciulla, nuota libera, volteggiando. Forse una lacrima, ma va, non fugge.
La meravigliosa vertigine è ricominciata…
(recensione pubblicata come prefazione in Vertigine di P. Colombo, Armando Siciliano Editore, Messina, 2006).
Gabriella Mauciere
(dir. edit. e cult. di Paginascritta Edizioni)
"Eppure gli volevo tanto bene!" di Albino Bernardini
Albino Bernardini, autore di origine sarda e che tuttora risiede a Bagni di Tivoli, vicino Roma, è nato nel 1917. Eppure gli volevo tanto bene!, suo testo pubblicato dalla Casa Editrice Kimerik nel 2009, è un racconto suddiviso in 41 brevi paragrafi, in cui l’autore racconta le vicissitudini di Salvatore, un ragazzino nato e cresciuto nella borgata di Villalba, frazione del Comune di Guidonia Montecelio in provincia di Roma. Sin dalle prime pagine del libro, lo scrittore ci presenta un personaggio travagliato, “difficile” e conflittuale: Salvatore, già da bambino, si ritrova a fare i conti con un società fatta di contraddizioni e non sempre benevola nei suoi confronti; proveniente da una famiglia disagiata, è costretto a doversi confrontare con un sistema scolastico “partitico”, in cui, cioè, alcuni insegnati non si preoccupano di aiutare gli alunni più infelici, preferendo “metterli all’ultimo banco”, concretamente e come metafora. Questo è ciò che accade a Salvatore, da subito “classificato” come “asino, maleducato e svogliato”. Aggettivi che nella mente e nel cuore di un bambino delle Elementari risuonano da subito come pesanti e insostenibili giudizi. E allora la reazione del piccolo sarà quella della fuga, dell’incaponirsi a reagire sempre più violentemente, e non solo a parole, sia con gli insegnanti, sia con i compagni. Pena: la bocciatura, la vergogna, la pesantezza nel decidere se ritornare in classe. Salvatore trova una nicchia in cui nascondersi quando il mondo è troppo ingiusto, sua madre, e un lago di rabbia dentro sé in cui nuotare quando immagina di liberasi in volo, suo padre. Da contorno a questo quadro c’è Sor Giuseppe, suo amico molto più grande di lui, Giulia, il suo primo amore, e a un certo punto colui che lo inviterà a vivere di nuovo la sua età: un maestro, un maestro vero. Questi comprende il disagio del bambino e lo esorta a raccontare ai compagni di classe le sue disavventure scolastiche, come fosse il reale protagonista di una storia: la sua. Salvatore, gradualmente, abbandona la diffidenza iniziale, simile a quella di un cane bastonato, e si fida del maestro. In questo percorso di “drammatizzazione”, che avrà cadenza temporale specifica, presenterà alla classe il suo stesso personaggio, quello che gli altri hanno etichettato conferendo pregiudizi alla sua persona; avrà la possibilità di far conoscere i “suoi” retroscena e le “sue” motivazioni per tanta “svogliatezza” e “maleducazione”. Allo stesso tempo, i compagni non vedranno più in lui il compagno da schernire. Il maestro, dal suo canto, vestirà anche il ruolo di “confessore”. Accadrà quando Salvatore gli confiderà che la mamma è tradita dal papà per una donna più bella. Terrà per sé, però, la profondità dell’odio-amore nei confronti di questo padre disattento, sentimento che influirà nelle sue scelte: dal fluttuare tra il voler lavorare e il voler poi studiare, al desiderare, e farlo, di entrare a far parte di piccole realtà criminali locali. Sarà l’interesse per Giulia, a volte , a farlo indietreggiare davanti alle situazioni pericolose, altre il contatto con la madre, altre ancora, un forte senso di sopravvivenza appreso troppo presto a contatto con grandi difficoltà quotidiane. Nel tempo, il protagonista si sforzerà di presentarsi al mondo con un “nome imparziale”, difficile da trovare perché il suo è stato sempre legato a qualcosa di negativo. Poi, finalmente, si dischiuderà al mondo, volendo distinguersi definitivamente da chi lo aveva accompagnato nelle malefatte: «… mi sembra che non sia del tutto sbagliato fare il Carabiniere … Perlomeno mi scaccio di torno tutto quello che si diceva su di me quando ero “uno di quelli”» (in A. Bernardini, 2009, pag. 141), dirà. E sarà anche vivere l’amore di Mariangela a conferirgli ulteriore forza. Bernardini ci presenta questi personaggi come “veri”, in una storia strettamente legata alla realtà, in merito non solo al suo dispiegarsi ma anche alle emozioni, ai turbamenti, alle ansie e alle vittorie conquistate dagli stessi, con fatica e costanza. Per stimolare nel lettore delle riflessioni, sulla società, sulla scuola, sull’adolescenza, sulle realtà lavorative, sui rapporti interpersonali. E lo fa partecipando direttamente alle sue parole, scrivendole in prima persona, come narratore rappresentato, testimone di ciò che è raccontato. È un autore a focalizzazione interna, assumendo la prospettiva del protagonista, il quale ci coinvolge nella movimentata vicenda della sua vita. Perché Bernardini decide di scrivere così questo suo libro? Molto probabilmente, per raggiungere più velocemente il suo lettore, anch’egli implicito perché sovrapponibile ai personaggi stessi. La sintassi sarà allora prevalentemente costituita da un discorso diretto, sebbene in taluni spazi sia caratterizzata da quello indiretto, spesso a sfondo descrittivo dell’emotività del protagonista, come fosse un diario interiore. Ed è proprio Salvatore a tracciare considerazioni sulle sue vicende: Bernardini glielo permette usando una fabula non coincidente con l’intreccio, adoperando l’analessi e citeriori possibilità narrative che conferiscono ulteriore movimento di azione, creando suspense nel lettore. In alcuni passi, infatti, ci sono ben tre tempi di azione: un primo al presente, del protagonista che racconta in “questo” momento; un secondo al passato, di lui che racconta in merito ad un avvenimento trascorso usando il verbo al passato; un terzo che si sposta al futuro, dello stesso che accenna, usando il verbo al passato, ad avvenimenti che sarebbero accaduti in avvenire: «Ero capitato nella sua classe non certo per caso. Ma questo lo seppi dopo» (in A. Bernardini, 2009, pag. 15). Tutti i personaggi sono raccontati nella loro globalità, attraverso descrizioni fisiognomiche, psicologiche, simbolismi, ideologie. La madre di Salvatore, ad esempio, è presentata con le mani ruvide, sintomatiche di instancabile lavoratrice e rivendica il ruolo di “moglie” quando il marito muore. D’altro canto, il maestro del protagonista si fa portavoce di “giustizia” davanti al maltrattamento di un bambino debole, e quest’ultimo va a caccia di lumache quando fugge da casa, come se l’autore volesse riflettere l’essere invertebrato di questi molluschi in un carattere ancora in corso di formazione da parte del protagonista. Quasi tutti i personaggi parlano un linguaggio semplice, usando nella fattispecie una ricorrente morfologia locale, che ben si sposa con il contesto in cui si svolge l’avvicendarsi. Avremo, allora, la presenza di diminutivi, sotto veste di forme apocopate, come in «Salvatò …» (ibidem, pag. 101), e un lessico costituito da un linguaggio parlato, espresso spesso dalla ripetizione delle parole, come in «… tuo padre questa sera ti lascia i segni, ti lascia» (ibidem, pag. 22). In quest’ultimo caso, ne beneficia anche il livello fonico della lettura, che ci permette quasi di visualizzare la donna, la quale, forse, “ripetendo” non si concede un istante di fiato perché trasportata completamente dalla sua irritazione del momento. E a tratti ci fa anche sorridere. Questa capacità di Bernardini di farci sentire diverse sensazioni, conferisce al libro l’ingrediente fondamentale. Proprio come nelle sue “storie senza finale”, i racconti e le favole da lui inventate per i più piccoli, le quali non vengono appositamente concluse al fine di lasciare che sia il lettore a creare un finale tutto personale; anche in questo caso, da adulti e da bambini, ci piace pensare ad una nostro esclusivo proseguimento circa le vicende di Salvatore (recensione pubblicata in “Kiamarsi Magazine” ANNO 2 – n. 4/2009).
Gabriella Mauciere
(dir. edit. e cult. di Paginascritta Edizioni)